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Questa sezione è dedicata a tutti i poeti e gli scrittori dai quali abbiamo tratto i nomi dei nostri prodotti. Nella prima parte viene riportata una breve biografia dell’Autore e la sua foto. Nella seconda, sono riprodotte tutte le poesie che abbiamo utilizzato.
Buona lettura!

Nino Martoglio dipinto da Elio Ruffo | Testi di di Sarah Zappulla Muscarà

Nino Martoglio

Battagliero pubblicista (fondò e diresse a Catania il giornale ebdomadario politico-letterario «D’Artagnan», dal 20 aprile 1889 al 17 aprile 1904), gustoso poeta dialettale (Centona, 1899; 1907), felice regista cinematografico e direttore della «Morgana Films» (Capitan Blanco, Sperduti nel buio, Teresa Raquin), fertile commediografo (Nica, 1903; I civitoti in pretura, 1903; ’U paliu, 1906; San Giovanni Decullatu, 1908; Voculanzìcula, 1909; Riutura, 1911; Capitan Seniu, 1912; L’aria del continente, 1915; ’U riffanti, 1916; L’arte di Giufà, 1916; Scuru, 1917; ’U contra, 1918; Taddarita, 1919; Sua Eccellenza, 1919; Il marchese di Ruvolito, 1920; Annata ricca massaru cuntentu, 1921), vivace organizzatore di convegni di poeti dialettali (a cui parteciparono, fra gli altri, Di Giacomo, Trilussa, Pascarella, Fucini, Russo, Barbarani, Testoni, Selvatico).
Nino Martoglio (Belpasso, 1870 – Roma, 1921) fu anche un appassionato direttore di compagnie teatrali («Compagnia dialettale siciliana»: 1903, 1904, 1907; «Teatro minimo o a sezioni»: 1910; «Compagnia del Teatro Mediterraneo»: 1919) che, se talora furono di breve durata, per ostilità interne ed esterne, raggiunsero prestigiosi risultati.

Micio Tempio

Domenico Tempio
(detto Micio)

Domenico (detto Micio) Tempio visse tra il 1750 e il 1821. Fu un poeta catanese, dotato di grande sensibilità e spessore culturale, ma noto per lo più la sua produzione erotica, che lo rese vittima di critiche e censure per tutto l’Ottocento, salvo essere poi riscoperto alla metà del Novecento. Al di là della produzione più prettamente sensuale, Micio Tempio, mancato ecclesiastico e giurista fallito, nei suoi versi dipinse così icasticamente la sua società, la sua Sicilia, prendendone di mira le storture, le ipocrisie, l’ignoranza dilagante, tanto da essere da alcuni considerato un anticipatore del movimento verista.

Giovanni Meli

Giovanni Meli

Giovanni Meli visse tra il 1740 e il 1815. Eclettico, estroso, docente di chimica presso l’Università di Palermo fino alla sua morte, medico di successo, finto abate, il Meli cominciò a dedicarsi alla poesia a partire dai quindici anni, ma raggiunse il successo proprio con La fata galanti, un poemetto improntato a tematiche filosofico-sociali. La sua poesia risente molto dello stretto contatto col mondo agreste, con una campagna reale e non ideale o stilizzata, nella quale ricercare la pace interiore, la serenità, le gioie dell’amore. Di lui il De Sanctis disse: “Il Meli trovò una vecchia letteratura e trasportandola nel suo dialetto vi spirò la freschezza della gioventù, ne fece il mondo della verità e del sentimento”.

Alfio Antico

Alfio Antico

Alfio Antico

Alfio Antico è nato a Lentini nel 1956. Fino a diciotto anni pastore nel siracusano, è oggi uno dei più celebri percussionisti italiani, possiede circa settanta tamburi, tutti da lui fabbricati e intarsiati. Ha collaborato con le personalità più eminenti della musica e del teatro, tra cui Fabrizio de Andrè, Giorgio Albertazzi, Lucio Dalla, Vinicio Capossela, Edoardo Bennato.

Salvatore Di Pietro

Salvatore Di Pietro

Salvatore Di Pietro

Salvatore Di Pietro, nato a Pachino nel 1906 e scomparso nel 1990, era esperto del dialetto e dei costumi siciliani. Fu lui che, con straordinaria intuizione delle sue qualità poetiche, invitò Salvatore Quasimodo a tenere un recital nei locali del circolo Artistico di Catania proprio qualche mese prima che a quest’ultimo venisse conferito il Premio Nobel.

 

Quasi tutte le opere sono scritte in dialetto siciliano e si incentrano su aspetti della vita contadina o sui temi della natura e dell’idillio, non trascurando le problematiche sociali come l’industrializzazione, le inquietudini esistenziali, i conflitti generazionali e lavorativi.

Poeta attento alla storia e sensibile alla religiosità più profonda dell’uomo, Salvatore Di Pietro ha rappresentato anche un punto di riferimento sicuro per intere generazioni di poeti siciliani, che a lui si sono ispirati dal punto di vista dello stile e della poetica. Le sue esperienze artistiche cominciano con il teatro, proprio sui palcoscenici mobili che si avvicendano, negli anni venti, nella grande piazza di Pachino, assieme a numerose e qualificate compagnie, fra le quali va ricordata quella di Giovanni Grasso in cui il nostro fece qualche recita come attor giovane. È il primo grande impatto con la cultura teatrale dialettale e certamente si deve a questa esperienza la sua inclinazione a scrivere testi teatrali

Guglielmino F

Francesco Guglielmino

Francesco Guglielmino

Nacque l’8 marzo 1872 ad Aci Catena (Catania). Compiuti i primi studi presso il locale liceo ginnasio, si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Catania dove si laureò l’8 luglio 1895.

Docente nel Ginnasio Cutelli, si era si era dedicato all’attività di conferenziere su autori antichi e moderni (Virgilio, C. Goldoni, H. Ibsen) presso i circoli Lyceum di Catania e del Dramma antico di Siracusa ma si era fatto conoscere anche come poeta dialettale, con la raccolta Ciuri di strata (Catania 1922, con Prefazione di F. De Roberto).

Vitaliano Brancati, nella prefazione alla 2ª ed accresciuta del libro (Catania 1948), definisce il Guglielmino un poeta romantico della letteratura dialettale. Infatti la sua poesia, sia nei momenti in cui l’io lirico si esprime direttamente, sia quando esso si cela dietro la maschera di personaggi popolari, dà sempre voce a un universale senso di caducità, in cui la malinconia è talvolta mitigata da una grazia quasi madrigalesca. Ma a differenza di quello utilizzato da Nino Martoglio, di cui per altro fu amico, il dialetto del Guglielmino rifugge da toni popolareschi così come, pur mantenendo in sé una naturale eco classica, risulta lontano dalle eleganze letterarie e dal gioco raffinato e colto che caratterizzano il siciliano di Giovanni Meli.

Divenuto ordinario di letteratura greca nel 1936, da allora fino al 1942, data del suo pensionamento, il Guglielmino si dedicò con continuità all’attività didattica, sempre nell’ateneo catanese; anche dopo il suo ritiro ufficiale, a causa della situazione bellica e postbellica che impediva l’espletamento di nuovi concorsi, venne incaricato, come docente fuori ruolo, prima dei corsi di letteratura greca e poi di quelli di storia delle religioni, fino al 1949, anno in cui fu nominato professore onorario nella stessa Università.

Guglielmino morì a Catania il 25 febbraio 1956.

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Luigi Pirandello

Luigi Pirandello

(Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936) è stato un drammaturgo, scrittore e poeta italiano, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1934. Per la sua produzione, le tematiche affrontate e l’innovazione del racconto teatrale è considerato tra i più importanti drammaturghi del XX secolo. Tra i suoi lavori spiccano diverse novelle e racconti brevi (in lingua italiana e siciliana) e circa quaranta drammi, l’ultimo dei quali incompleto. (note tratte da Wikipedia)
Senza titolo

Ercole Patti

Ercole Patti

Narratore, commediografo, giornalista, sceneggiatore, critico cinematografico, Ercole Patti è stato uno scrittore poliedrico, già considerato un classico del Novecento. Luoghi dell’anima e metafora dell’universo, Catania e Roma, i due poli geografici del suo itinerario esistenziale e letterario, popolati da personaggi di accesa sensualità, ci restituiscono il variegato affresco di una stagione irripetibile, dagli anni venti a quelli del dopoguerra, del boom economico, della dolce vita, di cui è stato un protagonista di primo piano. (note tratte da La nave di Teseo – Sarah Zappulla Muscarà)
Senza titolo

Ciullo D’Alcamo

Ciullo D'Alcamo

Cielo d’Alcamo, un tempo conosciuto anche come Ciullo d’Alcamo (Alcamo, … – XIII secolo), è stato un poeta e drammaturgo italiano. È uno dei più significativi rappresentanti della poesia popolare giullaresca della scuola siciliana. (note tratte da Wikipedia)

FILASTROCCA
Il nostro spumante lo abbiamo chiamato Re Befè, in omaggio a mia “nonna Pippina” ed a mia “za Maria” che, quando ero bambino, mi recitavano questa bellissima filastrocca. La filastrocca è fra le più antiche e simpatiche, che spesso varia secondo le zone geografiche: Re Befè, Re Bufè e Re Bafè. Si recitavano particolarmente ai bambini ed anche nelle feste paesane accompagnata da abbondante vino.

Poesie da bere

FRANCESCO GUGLIEMINO – CIURI DI STRATA

‘N campagna, cantu cantu di li strati,


ammenzu di li petri e li ruvetti,


sutta l’irvuzza tennira ammucciati


unni cu l’api runzunu l’inseti,

ci sunu di ciuriddi in quantitati


ca spissu ‘n coddu lu pedi ci metti,


ciuriddi ca non su’ mancu guardati,


ciuri ca si li cogghi poi li jetti.

Nino Martoglio – Amuri di Fimmina e amuri di matri


– Mamma, non sacciu cc’haju, stamatina!…


– Gesuzzu!… Chi ti senti, amuri santu?!…


– Mi sentu ca vurrìa sbuttari ‘n chiantu,


e ‘ntra lu pettu comu na’ virrina!


– Figghiuzzu, e comu fazzu?… Vih, chi scantu


ca mi sta’ dannu, cori miu, chi spina


ca mi metti!… Ma tu, ccu dd’acquazzina,


com’è c’arsira firriásti tantu?…

Nino Martoglio

– Tuttu dipenni dalla circustanza

ca ci ammatti alla donna ‘ntirissanti.

Mintemu: àvi un disìu di ‘na pitanza,


comu fussiru funci… e fa un liafanti.


O puramenti si tocca la panza
mentri ca guarda un pezzu di ‘gnuranti:


ci nasci un figghiu ca, diminiscanza,


è sceccu, vita natural duranti.

 

Nino Martoglio

(’ntra la vanedda di S. Caterina, a quattr’uri di notti)

 

– Ciccu, dammi ’ssu la, San Chitarraru

di la Madonna! – Prestu, ca c’è Rosa

c’aspetta ’a ’tturna. – ’I cordi s’allintaru!…

– Brau! E ’a carusa? – Ca si v’arriposa…

– E tannu sperdi a trunzu!… Va, accurdaru?…

– Cu’ fussi ’u capu ’a ’tturna! – Chi c’è cosa?

– Non disprizzannu… me’ cumpari Maru…

a prifirenza di l’amici… – (Posa

 

’ssu minnulinu, Carmelu…) Parrati…

– Avi ’na bona vuci di supranu…

– Mi nni cumpiaciu, e poi? – Siti prigati…

 

– Di chi? – D’accumpagnallu… – E si n’ ’o fanu?…

– Sfasciamu baulli e porti allannati!…

– Scrusciu faciti, allura ddà, ’ntr’ ’o chianu!

 

Pirandello e Martoglio – Cappiddazzu paga tuttu

Don Zulo rientra nel proprio paese d’origine dopo aver trascorso tanti anni in America. Divenuto ricco,

l’uomo organizza una vendetta nei confronti dei propri parenti colpevoli di averlo lasciato solo e di non essersi mai occupati di lui.


Il motivo della discordia il falso arrivo, diffuso da Don Zulo, di un giovane nipote americano ricchissimo in cerca di moglie.

Il culmine della vendetta di Don Zulo sarà la rappresentazione teatrale da lui organizzata, con la scusa di preparare una sorpresa per il giovane ospite in arrivo, con le maschere tipiche della

tradizione siciliana: la vecchia di l’acito, donna Tinnirina, la zia Vittula, don Ninnaru, don Sucasimula, Peppi Nappa, don Cola Mecciu, Giufà e

Cappiddazzu paga tuttu, quest’ultima maschera della generosità interpretata dal protagonista.

Dedicata a Cesare Pascarella, “A tistimunianza” , dramma in otto sonetti nella parlata catanese, apparsa per la prima volta nel 1899, per i tipi del Libraio-Editore Cav. Nicolò Gioannotta, in elegante edizione, è corredata da un disegno di Giovanni Martoglio di ascetica, patetica, inquieta fascinazione, dolcissimo vetriolo, dedicato a «Nino fraternamente» e datato 3 dicembre 1898, in una commistione di verismo (la giovane suicida per amore) e simbolismo (l’evanescente rivale vittoriosa).

 

Giovanni Meli

“Vogghiu sapiri, o Fata mia, cui siti?

Qual è lu vostru nomu appropriatu?

Pirchì ’un putennu darivi autra gloria

l’avirò sempri fissu a la memoria.

Idda rispunni: la tua curtisia

mi sforza a palisariti cu’ sugnu;

iu sugnu la tua propria fantasia”

Nino Martoglio

Iu li cugghivi ‘mmenzu li lurdumi,
‘ntra li taverni, ‘ntra lu lupanaru,
unni lu nustru suli è tantu avaru
di luci, nè virtù, nè c’è costumi.

Iu li cugghivi unni paru paru
Lu sangu allimarratu scurri a sciumi,
unni lu scuru è fittu e c’è pri lumi
sulu ocche luci luci picuraru.

E li cugghì di notti, spavintati,
tastiannu comu l’orvi muru muru
e zuppicannu comu li sciancati.

Pricchissu, ed anchi pricchì su’ sicuru
chi a fari lustru nun su’ distinati,
iu li vosi chiamari: «o’ scuru, o’ scuru»

Domenico Tempio

 

“Non cantu l’armi: li lassamu stari

in manu di li vappi e spataccini.

Chi gustu bruttu è chistu di cantari

straggi, sbudiddamenti, ammazatini!

Lu sulu dirlu già mi fa trimari

lu piddizzuni, e s’aprinu li rini.

Fora di mia li truci oggetti e l’iri:

amu la Paci, e cantu lu Piaciri”

Salvatore di Pietro

 

“Metru e rima

sunnu musica di lu cori

 

e ci li misi

 

pp’accurdari  ’sta vuci di l’anima

 

’nta ’sti muddichi di suli”

FILASTROCCA SICILIANA – RE BEFE’

– C’era nà volta un Re, befè, biscotto e minè, chi avjia nà figghia, befiglia, biscotto e miniglia, chi ajia n’acceddu befello, biscotto e minello.


Un gnjiorno l’acceddu, befello, biscotto e minello dà figghia befiglia, biscotto e miniglia del re befè, biscotto e minè volò. Ahi, comu chiancia, a figghia befiglia, biscotto e miniglia dù re befè, biscotto e minè!
Allora ù re befè, biscotto e minè risse:


“A ccu mi porta l’acceddu befello, biscotto e minello io ci fazzu maritari mè figghia befiglia, biscotto e miniglia!”.
E vinni un cristiano vavùso, tignùso, biscotto e minnùso chi disse:


“Ecco, re befè, biscotto e minè, io ti purtavi l’acceddu befello, biscotto e minello di tò figlia befiglia, biscotto e miniglia del re befè, biscotto e minè, ora mi là ddare pì mugghieri!”.


U’ re befè, biscotto e minè chiamò a figghia befiglia, biscotto e miniglia, ma chidda, quanno vitte ddul cristiano vavùso, tignùso, biscotto e minnùso risse:
“Io sugno a figghia befiglia, biscotto e miniglia dù re befè, biscotto e minè e un mi marito a ddu cristiano vavùso, tignùso, biscotto e minnùso, mancu si mi purtò l’acceddu befello, biscotto e minello!”.


Allura ù cristiano vavùso, tignùso, biscotto e minnùso raprìo ii ita e l’acceddu befello, biscotto e minello ddà figghia befiglia, biscotto e miniglia del re befè, biscotto e minè, volò … –

 

CIULLO D’ALCAMO – ROSA FRESCA AULENTISSIMA

«Rosa fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state,

le donne ti disiano, pulzell’ e maritate: tràgemi d’este

focora, se t’este a bolontate; per te non ajo abento notte e

dia, penzando pur di voi, madonna mia».

 

Alfio Antico

Occhi di ciumi
Muti sunu sti me schigghi
Comu a lu ciumi
occhiuzzi amati.
Occhiuzzi beddi ‘nginusi
occhiuzzi saggi
‘mbannunati.
Quanta ricchizza
m’aviti datu,
acqua di cielu
a ciumi e funtani.
Senza na stidda
mmenzu a lu scuru
jennu
o ciumi sulu sulu.

 

Nino Martoglio

(’ntra la taverna d’ ’u zû Turi ’u Nanu)

– Attoccu ju… vintottu ’u zû Pasquali…

Biviti? – Bivu, chi nun su’ patruni?

 

– Tiniti accura… vi po’ fari mali…

 

– Maccu haju a’ casa!… – E ju scorci ’i muluni!…

 

– Patruni fazzu… – A cui? – A Ciccu Sali

 

– Ah!… E sutta? – A Jabicheddu Tartaruni.

 

– (A mia ’mpinniti?… A corpa di pugnali

 

finisci, avanti Diu!…) – ’Stu mmuccuni,

 

si quannu mai, ci ’u damu, a Spatafora?…

 

– Troppu è, livaticcinni un ghiriteddu.

 

– Nni fazzu passu! – A cui?… Nisciti fora!…

 

A mia ’stu sfregiu? – A vui tintu sardaru!…

 

– Largu! – Largu! – Sta’ accura! – ’U to’ cuteddu!…

 

– Ahjai, sant’Aituzza!… M’ammazzaru!

Ercole Patti – Un Bellissimo Novembre


I vendemmiatori e le vendemmiatrici salivano in fila la scaletta esterna di lava

nera, arrivati davanti alla finestrella del palmento vi rovesciavano dentro i cesti

ricolmi; i grappoli battevano e vi si ammonticchiavano sull’impiantito in quell’odore inebriante di uva e di tralci

appena stroncati mentre i pigiatori con le pale di legno spingevano i grappoli verso il centro e vi cominciavano a

ballare su affondandovi i loro scarponi

             Ullarallà!

             va’ pistannu, cumpà!

             va’ pistannu, va’ pistannu, va’ pistannu,

             ca cchiù forti d’orellannu,

             t’avi a vèniri chist’annu,

             lu vinuzzu, Liolà!

             Ullarallà! ullarallà!

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